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Il divorzio, disciplinato dalla legge n. 898 del 1 dicembre 1970 e successive modifiche, è l'istituto giuridico che permette lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, allorché cessi la comunione di vita materiale e spirituale tra i coniugi ed essa non possa essere più ricostituita. Si parla di scioglimento quando il matrimonio è con rito civile, di cessazione degli effetti civili quando è concordatario (cioè celebrato dinanzi al ministro di culto e trascritto nei registri dello stato civile). Naturalmente non è ammesso divorzio per il matrimonio "canonico", perché privo di effetti civili. Il procedimento di divorzio si distingue in divorzio congiunto e divorzio giudiziale. In entrambi i casi, affinché si producano i relativi effetti giuridici, è necessario ricorrere all'autorità giudiziaria.
L'art. 12-bis della legge n. 898 del 1 dicembre 1970 stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto titolare di assegno di mantenimento divorzile, a una quota del TFR percepito dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro (anche se questo viene a maturare dopo la sentenza di divorzio). Il diritto non sussiste se la corresponsione dell'assegno di mantenimento in sede di divorzio è stata concordata in unica soluzione.
La legge n. 898 del 1 dicembre 1970 stabilisce che la quota spettante all'ex coniuge sia pari al 40% del TFR totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio, comprendendo in tale periodo anche l'eventuale separazione legale, fino alla data della sentenza di divorzio.
Con il termine convivenza more uxorio (o famiglia di fatto) si fa generalmente riferimento all'unione stabile tra due persone, non legate dal vincolo matrimoniale, che convivono secondo modalità e comportamenti assimilabili a quelli propri dei coniugi.
Di norma la casa familiare rimane di proprietà esclusiva del convivente titolare del diritto di proprietà.
La Corte costituzionale ha tuttavia stabilito che, al fine di tutelare gli interessi primari dei figli, la casa familiare può essere assegnata al genitore naturale affidatario del minore, o convivente con prole maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, anche se non titolare di diritti reali o di godimento sull'immobile (sentenza n. 166/1998).
In Italia la convivenza more uxorio non è soggetta ad alcuna regolamentazione di carattere generale né speciale. Tuttavia è possibile, oltre che consigliabile, autoregolamentarla mediante la stipulazione di un accordo di convivenza che disciplini i molteplici aspetti del ménage familiare sia nel corso del rapporto sia al momento della sua cessazione. Va precisato che, attraverso questo tipo di accordo, non sono disciplinabili gli aspetti di natura personale come l'obbligo di fedeltà reciproca, coabitazione, collaborazione e assistenza morale. È invece possibile regolare quelli economici e patrimoniali come il mantenimento, gli obblighi assunti nell'interesse comune, il regime degli acquisti effettuati durante la convivenza e il diritto di abitazione sulla casa familiare. L'accordo ha validità solo se i componenti della coppia sono liberi di stato (celibe/nubile o divorziato/a). L'eventuale vincolo matrimoniale attribuibile a uno dei conviventi costituirebbe illecito per violazione del dovere di fedeltà coniugale, invalidando l'accordo di convivenza.
La separazione personale dei coniugi, disciplinata dalle norme del codice civile (art. 150 e ss.), dal codice di procedura civile e da una serie di norme speciali, è l'istituto giuridico che permette l'interruzione della convivenza dei coniugi e la conseguente sospensione dei diritti e dei doveri assunti con l'atto di matrimonio. La separazione, a differenza del divorzio, ha carattere transitorio, pertanto non pone fine al matrimonio né fa venir meno lo status giuridico di coniuge, pur incidendo su alcuni aspetti propri del matrimonio. Il codice civile contempla esclusivamente la separazione legale, che si distingue in separazione consensuale e separazione giudiziale. In entrambi i casi, affinché si producano i relativi effetti giuridici, è necessario ricorrere all'autorità giudiziaria.
La separazione legale si differenzia dalla separazione di fatto, perché produce effetti giuridici che incidono sia sui rapporti tra i coniugi sia su quelli tra genitori e figli. La separazione di fatto, invece, non ne produce alcuno né costituisce valido presupposto per il termine di decorrenza dei tre anni necessari per l'ottenimento del divorzio. È opportuno precisare che, sebbene la separazione di fatto non sia di per sé sanzionabile, l'allontanamento di uno dei due coniugi dall'abitazione familiare o l'instaurazione di relazioni extra-coniugali potrebbe essere motivo di addebito in caso di separazione giudiziale.
La separazione consensuale, disciplinata dall'art. 158 c.c., è l'istituto giuridico attraverso il quale i coniugi decidono, di comune accordo, di porre fine alla loro unione matrimoniale. Separarsi consensualmente non è quindi possibile in assenza di un'intesa sulle principali questioni personali e patrimoniali (affidamento dei figli, modalità di visita del genitore non collocatario, assegnazione della casa familiare, alimenti e/o mantenimento). La separazione consensuale inizia con il deposito del ricorso, a seguito del quale viene predisposto e costituito il fascicolo d'ufficio. Il presidente del tribunale fissa con decreto l'udienza alla quale i coniugi devono comparire personalmente per il tentativo obbligatorio di conciliazione. In sede di udienza le parti rinnovano la loro volontà di separarsi alle condizioni di cui al ricorso. Il tribunale effettua un controllo di conformità tra quanto richiesto nel ricorso e la normativa vigente e, se gli accordi sono ritenuti equi e non pregiudizievoli per i coniugi e soprattutto per la prole, dispone con decreto l'omologazione delle condizioni, conferendo così piena efficacia alla separazione.
La separazione giudiziale, disciplinata dall'art. 151 c.c., è l'istituto giuridico al quale ricorrono i coniugi che non sono riusciti a trovare un'intesa sulle principali questioni personali e patrimoniali (affidamento dei figli, modalità di visita del genitore non collocatario, assegnazione della casa familiare, alimenti e/o mantenimento). La richiesta di separazione, che può quindi essere presentata anche da uno solo dei coniugi, segue lo stesso iter della separazione consensuale. In prima udienza il presidente del tribunale sente i coniugi separatamente e congiuntamente per il tentativo obbligatorio di conciliazione. Se il tentativo non riesce, il presidente emette i provvedimenti urgenti (cd. provvisori) relativi ai figli e alla casa familiare e nomina un giudice istruttore per il prosieguo del giudizio. Davanti a quest'ultimo si svolge una vera e propria causa civile al termine della quale il tribunale emette la sentenza di separazione. La separazione giudiziale può sempre essere trasformata in consensuale in corso di causa. In caso contrario è invece necessario avviare una nuova procedura. La legge 54/2006 ha introdotto la possibilità che il giudice possa, con il consenso delle parti, rinviare il procedimento, consentendo ai genitori di rivolgersi al servizio di mediazione familiare per essere aiutati da esperti a trovare gli accordi relativi ai figli (art. 155-sexies c.c., comma 2).
Nell'assegnazione della casa familiare trova applicazione il principio della salvaguardia dell'interesse dei figli (art. 155-quater c.c.), interesse che viene valutato prioritariamente anche rispetto agli interessi personali dei coniugi. In tal senso, la casa familiare viene generalmente assegnata al coniuge collocatario. La giurisprudenza recente ha invece escluso che il giudice possa disporre l'assegnazione della casa coniugale in assenza di figli.
Di norma, infatti, la stessa rientra nella sfera di disponibilità del coniuge proprietario, se di proprietà esclusiva, mentre si può richiedere la divisione giudiziale dell'immobile, se di proprietà comune.
Il diritto al godimento della casa familiare cessa nel caso che l'assegnatario non abiti o non abiti stabilmente nella casa familiare, conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio, ma anche quando i figli divengono maggiorenni ed autonomi.
L'affidamento dei figli in caso di separazione è disciplinato dalle norme introdotte dalla legge 54/2006. Il principio fondamentale è che il figlio minore abbia il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e conservare rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti di ciascun ramo genitoriale. Pertanto, salvo diverso accordo tra i coniugi, il giudice deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori (cd. affidamento condiviso). Alternativamente, sempre e comunque nell'esclusivo interesse della prole, può stabilire a quale di essi i figli siano affidati (cd. affidamento esclusivo). Il giudice determina inoltre i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi dovrà contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione degli stessi. Il coniuge affidatario in via esclusiva avrà la potestà sui figli, oltre all'amministrazione e all'usufrutto legale dei loro beni. Il genitore non affidatario conserverà il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli. L'art. 155-quater c.c. stabilisce che l'interesse dei figli è anche determinante per indicare a quale dei coniugi sarà assegnato il godimento della casa familiare.
Ha diritto al mantenimento il coniuge sprovvisto di adeguati redditi propri (art. 156 c.c., comma 1). L'assegno è di regola corrisposto mensilmente, o comunque periodicamente, e deve essere rivalutato annualmente secondo gli indici Istat. I presupposti che concorrono al suo ottenimento sono tre: (i) la non addebitabilità della separazione al coniuge a favore del quale viene disposto il mantenimento; (ii) la mancanza per il beneficiario di adeguati redditi propri; (iii) la sussistenza di una disparità economica tra i coniugi. In caso di inadempienza il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato oppure ordinare al datore di lavoro di quest'ultimo il versamento delle somme dovute direttamente al coniuge creditore. Per contro, in presenza di giustificati motivi, il giudice può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti che obbligano il coniuge al versamento dell'assegno.
Il diritto agli alimenti spetta anche se al coniuge meno abbiente è stata addebitata la separazione per colpa. L'assegno alimentare, infatti, ha lo scopo non già di permettere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, bensì di assicurare anche alla parte economicamente molto debole i mezzi adeguati a condurre una vita dignitosa (art. 156, comma 3, c.c.).
Il decreto di omologa è l'atto con cui il tribunale legittima la separazione, confermando l'esistenza del consenso prestato dai coniugi e la compatibilità delle pattuizioni con la legge e con i principi di ordine pubblico.
Il mancato versamento degli alimenti per i figli è un reato per il quale, in forza della violazione degli obblighi di assistenza familiare, è possibile sporgere querela ai sensi dell'art. 570 c.p. Il relativo diritto può essere fatto valere anche in sede civile con ricorso ai sensi dell'art. 709-ter c.p.c. a fronte del quale il genitore inadempiente rischia la condanna al risarcimento del danno nei confronti del figlio.
La rivalutazione Istat è un meccanismo di adeguamento automatico dell'importo stabilito in sede di separazione per l'assegno di mantenimento a favore dei figli e/o del coniuge, che ha lo scopo di preservarne il potere di acquisto dall'inevitabile svalutazione monetaria che subisce nel corso del tempo.
Per rivalutare l'assegno di mantenimento si fa riferimento all'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), periodicamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e sempre reperibile presso i centri di informazione statistica dell'Istat (CIS) dislocati sul territorio nazionale. Il modo più semplice per eseguire il calcolo è utilizzare Rivaluta, il servizio gratuito online per il calcolo delle variazioni percentuali tra gli indici maggiormente utilizzati per i fini previsti dalla legge e il rilascio della relativa documentazione ufficiale.
La rivalutazione Istat è obbligatoria per legge, pertanto è sempre dovuta. L'adeguamento deve essere operato annualmente in coincidenza del mese indicato dal provvedimento di separazione, divorzio o modifica delle condizioni. Se l'obbligato non ottempera, è possibile ottenere il pagamento delle somme non versate negli ultimi cinque anni attraverso la notifica di un precetto, senza la necessità di richiedere un adeguamento giudiziale dell'importo dell'assegno di mantenimento. Va tuttavia ricordato che il precetto è un atto esecutivo che ha un costo. Pertanto, prima di attivarsi in tal senso, è opportuno valutarne la convenienza rispetto all'entità del credito.
L'addebito della separazione è un provvedimento che sanziona la condotta del coniuge che, in violazione dei doveri disciplinati dall'art. 143 c.c. (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell'interesse della famiglia e coabitazione), ha determinato la crisi dell'unione. Con l'addebito il coniuge perde il diritto all'assegno di mantenimento che gli spetterebbe in caso di mancanza di adeguati redditi propri, conservando unicamente, laddove esistano i requisiti previsti dalla legge, quello a un assegno alimentare (art. 156 c.c.).
La riconciliazione, la cui attuale disciplina è contenuta negli artt. 154 e 157 c.c., consiste nel ripristino della vita familiare e dei rapporti materiali e spirituali che sono alla base della convivenza. La riconciliazione può avvenire in modo espresso tramite accordo formale oppure in modo tacito con la ripresa della coabitazione. In entrambi i casi gli effetti della separazione cessano automaticamente, senza alcuna necessità di ricorrere al giudice. Tuttavia, per poter rendere opponibile a terzi la riconciliazione e gli effetti che ne derivano (come per esempio il ripristino della comunione legale dei beni), ne occorre la formalizzazione mediante iscrizione nel registro di stato civile del Comune in cui è stato celebrato il matrimonio.